'; ?> <![CDATA[Il mio Blog]]> http://www.stimeperizie.it/blog/ IT Incomedia WebSite X5 Pro 1559052000): ?> <![CDATA[Dalla misurazione dell'ombra all'orologio]]> imblog
Ogni uomo, da sempre, riempie la propria vita con attività che, prodotte ed esaurite nei diversi momenti della giornata,  ne regolano l' esistenza stessa. L' attuazione di queste scandisce dunque il ritmo, quasi come un flusso continuo in cui si alternino azione e riposo, giorno e notte, luce e buio, e la percezione che abbiamo del tempo.
Questo anelito a definire con precisione il tempo è forse insito dentro di noi, giustificazione esorcizzante dello scorrere della vita  e della sua inevitabile decadenza, indicatore di un' esistenza intelligente e, soprattutto consapevole.
Forse mossi da queste considerazioni, i babilonesi intuirono, circa 5000 anni fa, che il tempo si poteva misurare calcolando l' intervallo tra un plenilunio ed il successivo. Assodato che questo si compiva in circa 30 giorni e che ogni 12 cicli di luna piena la luce emessa dal nostro satellite colpiva nello stesso punto un indicatore graduato, essi dedussero che un anno solare poteva dunque contare 360 giorni (12 mesi da 30 giorni).
Questo numero era, tra l' altro, ricco di simbologia, correlato alle loro conoscenze geometriche: equivaleva alla somma dei gradi di una circonferenza, divisibile in settori – come i mesi – e soprattutto risultante della moltiplicazione del numero sacro 12, presente nel mito e nella religione (basti pensare alle 12 fatiche di Ercole, ai 12 apostoli...) e che, con i babilonesi, divenne elemento cardine del giorno solare, diviso in due periodi di 12 ore (giorno e notte).
Migliaia di chilometri più a nord, a Stonehenge, nel 2000 a.C., era stato edificato un tempio solare che indicava in modo incredibilmente preciso, con i suoi enormi monoliti, equinozi, solstizi ed allineamento di corpi celesti.
Gli Egizi si affidavano invece all'ombra proiettata dalle piramidi, misurandone la lunghezza nei vari periodi dell'anno (tempus fugit, sicut umbra) , per calcoli astronomici di notevole complessità. Eppure tutte queste scoperte restavano appannaggio di pochi eletti. Furono proprio i discendenti dei faraoni che sentirono la necessità di misurazioni del tempo “personale”, oltre a quello “generale”. Ne derivò lo sviluppo degli gnomoni, degli orologi solari (meridiane) e degli orologi ad acqua (clessidre), dotati progressivamente di apparati ed automi sempre più sofisticati ed articolati.
Il più famoso è forse quello del greco Ctesibio (III sec. a.C.), il quale realizzò un orologio provvisto di galleggiante, che riportava le ore su un quadrante circolare, seguendo il progressivo svuotamento del recipiente contenente il liquido.
I Cinesi perfezionarono la tecnica di calcolare lo scorrere del tempo in base alla consunzione di un materiale: ecco le lampade ad olio e le candele tarate in modo da consumarsi entro periodi definiti. Addirittura, sviluppando la conoscenza delle proprietà convettive delle lenti, riuscirono ad ideare un segnatempo azionato da micce innescate da lenti esposte al sole, che azionavano cannoni o cariche esplosive.
Obelischi, piramidi, menhir, o semplicemente pali, bastoni, montagne furono dunque i primi segnatempo, che permettevano di calcolare lo scorrere delle ore attraverso la lunghezza dell'ombra che proiettavano; quando tale ombra fu misurata su un quadrante graduato, essi presero il nome di meridiane. Questo orologio (“hora lego” oppure, secondo altra etimologia,  “horologium” , che  trae origine proprio dagli strumenti ad acqua e pur in vari dialetti e lingue - horloge, reloj, orloge, oriolo...- resterá ad indicare, dal XIII secolo, anche l'orologio meccanico) si diffuse soprattutto nei paesi a più alta esposizione solare, quali quelli arabi, che lo portarono ad alti livelli di precisione ed affidabilità. Qui si sviluppò, su una concezione simile, anche l' astrolabio, strumento che permetteva di riconoscere determinati astri e, in base alla loro posizione, di determinare l' ora, sia di giorno che di notte. Restò accessorio fondamentale dei naviganti, quali Colombo e Vespucci, fino all'avvento dell'orologeria moderna (che risolse il problema del calcolo della longitudine).
La clessidra invece, soprattutto nella versione a sabbia (clepsamia), piú pratica, anziché a liquido, ebbe enorme diffusione in tutto il mondo antico, misurando dai tempi delle arringhe degli avvocati ateniesi agli orari dei turni di guardia dei soldati e restò in voga sino all'avvento dei primi orologi meccanici, molti secoli dopo.
Il primo orologio totalmente meccanico conosciuto é quello di Enrico de Vic, tedesco, chiamato in Francia da Carlo V, e destinato ad ornare il Palais de Justice di Parigi. Costruito totalmente in ferro, era mosso da un peso di ben 225 kg ed é il primo esempio di meccanismo in cui si riescono a distinguere le tre parti fondamentali di un misuratore del tempo: apparato motore, rotismo e regolatore. Dal primo si ottiene la forza, dal secondo la trasmissione della stessa agli aghi indicatori, dal terzo la modulazione piú o meno costante dell'energia trasmessa. Quest'ultima componente é quella che piú ha incentivato l'ingegno umano, alla ricerca di una distribuzione graduale, ma soprattutto precisa, della forza trasmessa dai pesi prima e dalla carica a molla successivamente.
É del 1344 l'orologio planetario di Giovanni Dondi, padovano, che ottenne addirittura l'onore di chiamarsi Dondi Dell'Orologio in considerazione della sua genialitá applicata alla costruzione di questo manufatto.
Nel Medioevo, la diffusione degli orologi da torre, nelle chiese delle maggiori cittá, rivoluziona la vita e la societá: i rintocchi delle campane, azionate dal sacrestano alle ore convenute, scandiscono le fasi del lavoro e del riposo dei contadini, richiamano alla preghiera, regolano i ritmi delle attivitá commerciali.
Questa diffusione stimola la creativitá dei fabbri artigiani, che sviluppano i primi orologi domestici, prima dotati di pesi e successivamente azionati con congegni a molla.
Verso la metá del XV secolo, in una successione temporale sempre piú breve, si sviluppano scappamenti di volta in volta piú sofisticati, tesi a miniaturizzare le dimensioni dei meccanismi ed a garantirne la precisione.
Cittá come Norimberga ed Augusta sviluppano, a cavallo del XV e XVII secolo, le loro economie grazie all'orologio ed alle sinergie di orologiai, orefici, bronzai, ottonai, incisori e smaltatori che si riuniscono in corporazioni dedicate alla sua costruzione.
Vengono chiamati uova di Norimberga, in base alle loro goffe forme (o piú probabilmente in seguito ad un errore di traduzione), i primi orologi tascabili attribuibili all'orologiaio Peter Henlein intorno al 1500. Nel 1525 a Praga l'orologiaio Jacob Zech inventò la conoide, un dispositivo che garantiva regolaritá di erogazione all'azione della molla motrice.
La guerra dei trent'anni (1618-1648) svuotó peró le principali cittá tedesche dei suoi valentissimi orologiai (in stragrande maggioranza protestanti) che emigrarono prevalentemente a  Parigi (dove la corporazione degli orologiai esisteva dal 1544), dove fiorirono botteghe di altissima specializzazione. La successiva revoca dell'editto di Nantes fece sí che anche in Francia questi profughi fossero perseguitati e trovassero asilo in Svizzera ed Inghilterra che divennero i principali centri di produzione orologiaia dei secoli a venire. Agli inizi del 1700 Londra era la capitale mondiale della costruzione degli orologi da persona (la corporazione londinese si costituí nel 1632).
Perfezionamenti decisivi nell'ottenimento della precisione degli orologi furono l'applicazione del pendolo, attuata da Christian Huygens, nel 1657 (studiando le leggi fisiche di Galileo Galilei), la molla a spirale del bilanciere, inventata intorno al 1660 da Robert Hooke, lo scappamento a cilindro di Georges Graham, che rimase in uso negli orologi da tasca fino al XIX secolo, e lo scappamento ad ancora, inventato nel 1765 dall'inglese Thomas Mudge.
Questa ricerca della perfezione aveva implicazioni reali ed economiche: il problema del calcolo esatto della longitudine, ad esempio, impegnava da secoli i piú valenti matematici ed astronomi. Se la latitudine era facilmente rilevabile osservando il Sole e le stelle, ben piú difficile era stabilire la posizione di una nave rispetto all'est ed all'ovest. I disastri navali causati da errati calcoli costavano ai vari Stati cifre inimmaginabili, al punto che i Monarchi offrirono premi rilevanti a chi fosse riuscito a costruire un orologio capace di essere preciso anche in navigazione.
Fu cosí che, dopo vari tentativi, nel 1761 John Harrison vinse un premio di 10000 sterline, decretato dalla regina Anna d'Inghilterra, per il suo cronometro da marina (errava appena di 1 secondo ogni otto ore).
Tale orologio venne perfezionato, negli anni successivi, da Pierre Le Roy e dall'acerrimo rivale orologiaio Ferdinand Berthoud.


 

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Tue, 28 May 2019 14:00:00 GMT http://www.stimeperizie.it/blog/?post-3 http://www.stimeperizie.it/blog/rss/000000006
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DIAMANTE: le “4 C”

Il peso delle pietre preziose viene definito nell'unità di misura “carato”, poiché anticamente si rapportava il peso del seme di carrubo (0,197 grammi, straordinariamente – come straordinaria è sempre la natura – con pochissime eccezioni) a quello dei cristalli, nell'uso assai diffuso nel XVIII secolo della bilancia a doppia stadera.
Nel 1907 si fissò, a livello internazionale, il peso dell' etimologicamente trasformato suono di “carrubo”, in “carato” e lo si fece corrispondere a gr. 0,2.  Una pietra del peso di un grammo, quindi, sarà opportunamente classificata in cinque carati, l'abbreviazione scritta in modo corretto sarà: ct. 5,00. E' importante sapere che i centesimi di carato sono usatissimi nel linguaggio comune gemmologico: per cui un diamante da 52 punti sarà, per l'esperto, una pietra singola da poco più di mezzo carato.
Il peso della pietra, che, si badi bene, ha poco a che fare con la sua grandezza, è fondamentale per la sua valutazione: il mercato mondiale si basa su lotti il cui ordine di peso è la discriminante e, in teoria, calcola il numero di pietre di quell'ordine di grandezza presenti sul mercato, ne stabilisce l'ipotetica domanda e offerta, ne fornisce quindi un range di valore. Non c'è quindi alcun rapporto di proporzionalità tra pietre di diversa misura: a Gennaio 2012, la Borsa Diamanti stabiliva per un carato di diamanti, taglio brillante, di caratteristiche medie, in pezzatura da un singolo punto l'una (ct. 0,01) una quotazione di euro 550,00, perciò neppure euro 6 a pietra;  per lo stesso peso (ct.1,00) e le stesse caratteristiche,  ma in pietra singola, euro 5.760,00; la stessa tipologia, ma in pietra singola da ct.10,00, euro 390.400,00. Quest'ultima, con la sola discriminante effettiva di poterla reperire sul mercato..

Clarity è invece la parola inglese, che prefissata in campo internazionale, si riferisce alla purezza della pietra, o meglio alla presenza, più o meno consistente, di inclusioni di varia natura (impurità all'interno del cristallo). La pietra deve venire osservata ad una speciale lente (loupe), detta anche “tripletta”, a dieci ingrandimenti, per stabilire quale tra i seguenti ordini di purezza è quello che definisce con esattezza il cristallo che valutiamo:
IF – la pietra risulta pura alla lente a 10 ingrandimenti;
gruppo dei VVS – la pietra presenta delle piccolissime o piccole inclusioni difficilmente rilevabili a 10 ingrandimenti;
gruppo dei VS - la pietra presenta delle piccole inclusioni rilevabili a 10 ingrandimenti;
gruppo degli SI - la pietra presenta delle inclusioni piccole ma rilevabili con facilità a 10 ingrandimenti;
gruppo dei Piquè: la pietra presenta delle inclusioni rilevabili ad occhio nudo (in modo difficile = P1; rilevabili = P2; facilm. visibili = P3).

 
Color è la parola inglese ( tutta la terminologia gemmologica assunta a livello internazionale  è in questa lingua) che definisce, nel caso del diamante, la quantità di sovracolorazione gialla che  si somma al bianco della pietra, determinandone un calo di valore quanto più è presente. Ricordo che la parola “bianco”, in gemmologia, significa “trasparente” senza alcuna inflessione da parte di altri colori.  Viene definita con le lettere dell'alfabeto (..inglese) partendo dalla “D”, il colore più bianco, e quotando le pietre fino alla “M”, ma terminando, in realtà seppure non commercialmente parlando,  con la “Z” e la “Z+” ovvero i colorati ed i “fancy colors”, straordinari e costosissimi  scherzi della natura che tingono di blu oltremare, rosso carminio, giallo canarino, viola, rosa , arancio, verde, ecc. il nostro diamante, vere rarità il cui valore viene stabilito soltanto dai precedenti d'asta.
La tecnica per definire con esattezza il colore di un diamante è porlo a luce nordica (una particolare luce bianca povera di raggi ultravioletti), in campo neutro (ambiente bianco non influenzato da colori di alcun genere) e con l'aiuto delle “master stones”, pietre di paragone graduate nella  tinta e corrispondenti alle sopra citate lettere dell'alfabeto.               

Infine, l'ultima “C”, il “cut”, si riferisce alla tipologia di taglio ma, cosa ben più importante a fini valutativi, alla proporzionalità e all'esattezza, secondo canoni percentuali predefiniti, delle misure e dell'inclinazione (misurata in gradi) di ogni singola faccetta , al fine di ottenere, nel complesso delle varie parti, una riflessione della luce pressochè totale, con l'ottenimento di quella somma di luci e colori che definiamo, appunto, brillantezza.  

Un esempio: il diamante, la pietra che più spesso viene tagliata a “brillante” ( taglio composto in forma rotonda con n.56 faccette più la tavola), deve osservare alcune ben definite proporzioni che regolano i rapporti tra il diametro (misurato dalla cintura), la tavola superiore, il padiglione (il corpo sottostante, a forma di cono sfaccettato), la corona (doppio ordine di faccette tra la cintura, parte più ampia della pietra quanto a circonferenza, e la tavola superiore, parte liscia, piatta, frontale all'osservatore). Ogni errore rilevato nel taglio, misurabile matematicamente con l'ausilio del calibro o mediante lo strumento “proportion scope”, penalizza la riflessione della luce e la brillantezza e, dal punto di vista della stima, il valore della pietra.
Discorsi simili si possono fare su tanti altri bellissimi tagli usati per rendere splendente il diamante: il taglio a cuore, a baguette, a marquise, a carrè, a smeraldo, a goccia, ecc. ma ricordando che un diamante tagliato “ a rosa” o  “a brillante vecchia Europa” o “vecchia miniera” (Old Mine), varrà forse meno in termini di quotazione, sarà forse meno sfacciato nel restituire al nostro occhio la luce dispersa nei sette colori, ma la raffinata brillantezza di un taglio “a cuscino”, oramai dimenticato da più di un secolo, potrebbe darci l'emozione del tempo passato, il ricordo di tecniche ormai in disuso, il piacere raffinato di indossare o investire in un pezzo storico e di valore culturale.
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Wed, 15 May 2019 14:00:00 GMT http://www.stimeperizie.it/blog/?post-2 http://www.stimeperizie.it/blog/rss/000000005
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Tradizioni orafe triestine: usi e costumi di una Trieste austroungarica

Rileggere la storia attraverso i gioielli, gli ori e i piccoli e grandi tesori delle famiglie triestine, è stata una bella avventura di un anno e mezzo di intenso lavoro. L'opportunità ci è stata offerta  dall'Assessorato alla Cultura del Comune di Trieste, nel 2006, che ci richiese la perizia sui beni contenuti nell'Archivio di Stato, ereditati dalla “Cassa dei depositi”, prevista dalla Patente di Giuseppe II a partire dal 1785. Ben 9460 reperti (provenienti da esazione di tasse, lasciti ereditari, oggetti pervenuti da privati cittadini, contenziosi legali, pegni per crediti, spese legali e multe comminate, ritrovamenti sulla pubblica via, preziosi consegnati dalle polizie locali -suicidi e vittime di incidenti - e dagli ospedali) sono stati da noi catalogati, studiati e hanno formato quel corpus che ci ha dato modo di farci interpreti della storia di una città a partire dalla fine del XVIII secolo, fino alla Prima Guerra Mondiale.
Agli albori del XIX secolo, Trieste è in piena espansione commerciale, caotica, con un porto dalle caratteristiche più levantine che asburgiche, ma che riesce a competere e a sopravanzare Venezia proprio per la maggiore elasticità fiscale e normativa: questa libertà si riflette anche sulle cosiddette arti minori, soprattutto l'oreficeria, che richiama artigiani dalmati, istriani, veneti ed ebrei, spinti dalla crescente richiesta, soprattutto privata. E nel nostro porto arriva di tutto: pietre preziose di ogni genere e tipo, perle, coralli, turchesi da terre lontane. E tante, tante culture che si intrecciano nella loro esperienza estetica e nelle loro tradizioni, dando luogo a molte infiltrazioni che vanno a riplasmare le mode dell'epoca, stimolando creazioni abbinate a tutto ciò che di “curioso” il mondo al di là del mare ci porta.
Analizzare questa grande quantità di oggetti, suddivisi – importantissimo per i nostri studi – in lotti, ci ha permesso di ricostruire il patrimonio aureo e prezioso delle singole famiglie locali, attraverso le scelte comuni, imperniate su tradizioni sociali ed affettive, con il tramandarsi (di solito, di madre in figlia) gli oggetti cari che, quindi, affondano le loro radici anche nelle generazioni precedenti.
E di scrivere quello che è, a tutti gli effetti, il primo saggio di storia delle tradizioni nell'oreficeria della nostra città, laddove – precedentemente – solo Kandler, Ranieri Cossar e, successivamente, il conte Perusini (che lambì soltanto la storia giuliana, ponendo l'accento alle sole sue influenze sul costume friulano) ne avevano trattato marginalmente l'argomento.  
I nostri usi e costumi sono le tradizioni, gli usi e i costumi delle popolazioni limitrofe, comprendono quindi tutta la parte geografica di cui siamo figli e fratelli: il litorale istriano e dalmato, la zona carsica; la vivacissima – in campo orafo - Gorizia; i vicini friulani, con la Carnia, il tolmezzino, Palmanova e la zona dell'udinese, molto attenta, quest'ultima, ad importare ed esportare nuove tendenze.  
Una sorta di rimaneggiamento di antiche usanze austroungariche elaborate e metabolizzate aggiungendovi correnti di pensiero e artigianali provenienti dal Mediterraneo; da nuove genti che ripopolano Trieste durante l'impero teresiano e portano con sé nuovi oggetti curiosi e da imitare; dal fervore generato da tanti popoli diversi che vogliono uniformarsi ad un senso estetico comune, pur rivendicando le proprie tradizioni ed i propri gusti culturali. Per Trieste, non è facile parlare di tradizioni orafe in senso univoco – come per i nostri confinanti friulani - ma neppure di mode o correnti: i triestini sono speciali, originali, orecchiano e vedono cose tanto diverse, ma amano filtrarle e riassumerle a modo loro. Di tutto un po', quindi, ma con dei punti fissi che segnano la vita privata e pubblica di ognuno, che divengono quindi dei “doveri sociali” da donare, ricevere ed esibire scandendo così ogni pietra miliare della propria esistenza.
Gli oggetti sono spesso retaggio degli antichi costumi e tradizioni rurali, legati agli eventi più significativi della vita: gli orecchini - o buccole - regalo della santola, il crocifisso o la medaglietta sacra avuta in occasione della Cresima, i doni di fidanzamento e nuziali ( l'anello, la fede, la spilla, le collane con i grani di corallo o le perle di granato, la spilla bene augurale con la cintura..), gli orecchini con le pietre o le verete da portare tutti i giorni.
Nelle famiglie più agiate troviamo le catene “manin”, collane ottenute con la lavorazione di lega d'oro ricavata dalla fusione degli zecchini a titolo alto, denominate "cordon d' oro" (erano parte della dote che la sposa riceveva dalla propria famiglia, prima delle nozze); oreficerie boeme con granati, realizzate per lo piú nella lega cosiddetta “oro granata”, a basso titolo aureo; catene da orologio, oreficeria e argenteria simbolica e apotropaica.
Proprio quest'ultimo aspetto ci racconta di una societá in evoluzione ma pur ancorata a credenze e superstizioni vecchie e nuove: accanto alla tradizionale oreficeria propiziatoria e sentimentale, contraddistinta dalla presenza della pietra rossa ( bene augurale, rappresentava amore e passione), del corallo (elemento che riuniva in sé il mondo animale e vegetale - nonché il colore rosso - protettore contro il malocchio) e delle perle (propiziatrici di feconditá e fedeltá coniugale), incontriamo talismani relativamente recenti per l'epoca, quali il numero 13 (buona sorte), il gobbo (il male altrui, se toccato, esorcizzava il proprio), il teschio (“memento mori”), fino a numerose varianti della medaglia istriana (ispirata alla moneta di Kremnitz del XVIII secolo) che raffigura al dritto San Giorgio che uccide il drago e al verso la nave in tempesta entro il motto “in tempestate securitas”, amuleto per i marinai e la buona navigazione. Il moretto, importato dalle genti fiumane, adatto agli uomini di mare, la medaglia con la viola del pensiero, dono della fidanzata timorosa d'essere tradita. Persino le croci e le raffigurazioni di santi e della Madonna, assumono un significato più “utilitaristico”, di protezione pagana: sono spesso in materiali che abbiano la riconosciuta capacità di sortire effetti positivi su chi li indossa. Crocifissi in corallo (portatori di amore e fedeltà, colore adatto a tenere lontani gli spiriti), Madonnine in cornici di turchese ( l'azzurro era “contra malo”), santi effigiati in perla o madreperla (purezza per la sposa), ecc, come se si fosse dovuto dare un “aiutino” alla sola fede.
Molto numerosi sono tra le famiglie triestine i gioielli in argento: a questo metallo infatti, assimilato al candore lunare ed alla purezza che ne derivava, era associato il potere di allontanare gli spiriti maligni, amplificato se lavorato in modo da tintinnare, sugli orecchini, sui bracciali, sui sonagli dei bambini.
A metà del XIX secolo gli oggetti si diversificano secondo le richieste della nuova committenza, raffinandosi in gusto e valore: si diffonde l'oreficeria maschile ed alcuni oggetti di uso comune vengono riproposti in chiave preziosa per l'uomo: i primi anelli, con pietre talismaniche, con l'iscrizione delle iniziali, anche con sigilli incisi (se ne incontrano alcuni piuttosto pretenziosi essendo in metalli dorati); l'orecchino singolo, primo tra tutti il moretto, regalato secondo l'usanza fiumana al primogenito maschio, la cui difficoltà di attuazione era considerata auspicio della vita futura; bottoni ricercati, catene da orologio, temperini (“britole”), portamatite. Si intensifica la richiesta di argenteria per la casa, per arricchire le case dei novelli sposi.  
L'oreficeria da lutto, ottocentesca esigenza per le donne più raffinate ed attente agli obblighi sociali.  
Poter analizzare, studiare ed infine divulgare questa “storia d'ori” è stato un grande onore: abbiamo potuto ascoltare quegli oggetti cari e tramandati con affetto, li abbiamo vissuti valutandoli, ma – nel contempo – ci siamo sentiti triestini, interpreti di quel miscuglio di culture ed etnie che scorre nel nostro stesso sangue.
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Thu, 09 May 2019 14:00:00 GMT http://www.stimeperizie.it/blog/?post-1 http://www.stimeperizie.it/blog/rss/000000004